mercoledì 27 ottobre 2010

Intervista a Sergio Toppi


Ho ricevuto la seguente intervista di Fabrizio Lo Bianco a Sergio Toppi sotto forma di comunicato stampa da parte de Il Giornalino, che giovedì 28 ottobre inizierà a pubblicare la collana di dodici volumi Sulle rotte dell'immaginario.

Quando ha iniziato a dedicarsi all’illustrazione e al fumetto?
Avevo conosciuto i fratelli Pagot quando andavo ancora al liceo; ero andato a mostrare loro alcuni miei disegni, ma mi avevano detto che era meglio ritornare in seguito. Nel frattempo, mia madre – che lavorava in una piccola casa editrice – aveva portato i miei disegni al dottor Gabrielli, il nonno della Pivetti, che era un linguista che lavorava alla Mondadori. Era uno dei curatori di una riedizione dell’Enciclopedia dei Ragazzi e io ho cominciato proprio con lui, nel 1952, a pubblicare i miei primi disegni. Poi ci fu un signore, curatore dell’enciclopedia Garzanti, che mi diede da fare delle illustrazioni sul tema del Gilgamesh. In seguito mi hanno richiamato agli Studi Pagot per lavorare in ambito pubblicitario. Al tempo era un tipo di lavoro che lasciava molto spazio alla creatività. Potevi ricercare, trovare delle soluzioni con una libertà che mi sembra oggi non ci sia più. Credo sia stato un periodo per certi aspetti irripetibile, che mi ha giovato molto: mi occupavo anche di
sceneggiature e scenografie. Era un periodo molto vivo e quel lavoro era affascinante, ci si confrontava con ciò che si faceva da altre parti. Ricordo che era bello studiare i personaggi, si facevano riunioni apposite. Per esempio, durante il periodo d’oro di Calimero, una volta alla settimana ci si incontrava con i fratelli Pagot, con Gianfranco Barenghi e gli altri collaboratori. Era un lavoro nel quale ci si divertiva. Tra i personaggi più noti ai quali ho dato il mio contributo in quel periodo ci sono Grisù e Calimero.


Com’è avvenuto l’incontro con il fumetto?
Su una bancarella, a Bologna, quasi per caso. Sfogliando un numero di “Asso di Picche” rimasi colpito dalla qualità dei disegni di due autori in particolare, Hugo Pratt e Dino Battaglia. Ero giovane e non avevo una grande cultura fumettistica. Qualche volta mi capitava di leggere “Flash Gordon”, ma non ho mai avuto una passione viscerale per i fumetti, così come a tutt’oggi devo dire che non ne leggo moltissimi.

Su quale rivista sono apparse le tue prime tavole?
Sul “Corriere dei Piccoli” intorno alla fine degli anni Cinquanta e lì continuai a pubblicare fino agli anni Settanta. Poi conobbi padre Giovanni Colasanti, un sacerdote che dirigeva il “Messaggero di Sant’Antonio”, il giornalino della basilica del Santo di Padova. A padre Colasanti, devo molto. Per un certo periodo quella pubblicazione raccolse racconti di alcuni dei più noti fumettisti in Italia, lasciando grande libertà agli autori. Io di quella libertà ho beneficiato in particolar modo mettendo le basi per quello che poi è diventato il mio stile. È da allora che ho cominciato a disegnare senza tener conto dei quadrati che nel fumetto più ortodosso scandiscono il passaggio da una scena all’altra. Più o meno nello stesso periodo ho cominciato a collaborare con “il Giornalino” e anche qui ho trovato una grande libertà, anche quando ho lavorato su sceneggiature altrui.
Una sua cifra stilistica è l’utilizzo della tavola in maniera molto libera, senza troppi vincoli dettati dalle vignette.
Buona parte dei fumettofili considera questo approccio un anatema. Chi critica questa mia impostazione delle pagine afferma che la sequenza narrativa viene meno. A me è piaciuto rompere questo schema e dare più rilevanza possibile alle scene principali e a distribuire in maniera precisa i balloon perché devono anch’essi contribuire a una disposizione equilibrata della pagina.

E per quanto riguarda le storie che lei stesso sceneggia, come procede? Disegna direttamente la tavola o prima redige una sceneggiatura completa?
Non faccio la tradizionale stesura dattiloscritta, preferisco costruire progressivamente lo sviluppo di una storia che stia in piedi. Non metto mai per iscritto la sceneggiatura: avendo una scadenza in mente per la consegna del lavoro, passo alla realizzazione delle tavole e solo in seguito aggiungo i testi. Piuttosto posso fare una scaletta di ciò che dovrà capitare nella storia, magari prendo degli appunti. In genere disegno le storie in maniera abbastanza ordinata, a volte però mi capita di disegnare per prima una tavola o un’inquadratura che mi piace particolarmente e di adattare le altre di conseguenza.

Quali opere sceglierebbe per esemplificare al meglio il suo percorso artistico? Di quale tua opera va maggiormente fiero?
Una risposta abbastanza elusiva potrebbe essere: la prossima che farò. In realtà quelle del Collezionista e di Sharaz-de direi che mi piacciono, ma anche altre che non sono conosciutissime, come per esempio Thanka o certe copertine per “Sgt. Kirk”, le storie e le illustrazioni di “Corto Maltese”. Inoltre per anni su “Il Giornalino” ho collaborato a un inserto che si chiamava “Conoscere Insieme” in cui sono stati esplorati tutti i grandi temi della storia, dalle prime civiltà ai Romani, dai vichinghi alle guerre del ‘900, spaziando anche attraverso i grandi personaggi, scienziati, esploratori, inventori, ecc.
 
Le sue tavole in bianco e nero ricordano talvolta delle vere e proprie incisioni. È una scelta stilistica?
Sono affascinato dal contrasto forte tra bianco e nero perché mi sembra qualcosa di definitivo. Per questo amo le acqueforti, e penso che il mio stile ne risenta. Da qualche anno ho incominciato a dedicarmi all’incisione, soprattutto d’estate, quando, insieme a un amico che mi aiuta, posso disporre di spazi e strumenti adatti per mettere in pratica le tecniche incisorie. Apprezzo moltissimo le incisioni di un’artista italiana che si chiama Federica Galli. In generale, mi interessa l’arte figurativa e per il passato la mia preferenza va a Rembrandt. Mi piace anche l’arte della Secessione, a cavallo tra Ottocento e Novecento, sia nei suoi grandi rappresentanti, come Schiele e Klimt, sia nei minori, anch’essi eccezionali. Lo trovo un periodo veramente entusiasmante dal punto di vista creativo. Era l’epoca delle arti applicate e anche un tovagliolo poteva diventare un’opera d’autore. Questi “artigiani” spaziavano attraverso tutti i campi della creazione artistica grazie a una tecnica strabiliante. Non erano solo dei pittori. Erano artisti completi.

Quali sono le principali differenze tra il lavoro di un fumettista e quello di un pittore?
Trovo che un conto sia fare il pittore, un altro fare l’illustratore-disegnatore: se un disegnatore, e quindi anche un fumettista, illustra un palazzo e questo, per così dire, non sta in piedi, lo si nota. Un pittore invece può permettersi delle licenze sicuramente maggiori.
Lei si dedica spesso a lavori di illustrazione pura: quali sono le differenze sostanziali rispetto al fumetto?
Quello dell’illustrazione è un campo nel quale mi cimento sempre volentieri. Ho realizzato illustrazioni per quotidiani, periodici, libri e una volta per la copertina di un disco, anche se, francamente, non ricordo per quale casa discografica. Illustrazione e fumetto sono estremamente legati e non vedo grandi differenze tra questi due tipi di lavori, se non, com’è ovvio, la necessità nel fumetto di articolare la storia lungo trenta o più pagine anziché cercare di visualizzare qualcosa in un’unica tavola.

Ha fonti particolari d’ispirazione quando crei una storia?
Ci sono racconti che devi sviluppare secondo i canoni dell’avventura pura, come quelli che ho realizzato per la Cepim; per altri puoi trarre ispirazione da fatti accaduti realmente, connotandoli poi con la tua fantasia: è quello che ho fatto con i lavori per “Linus” e “Corto Maltese”. Questo tipo di storie sono quelle che appartengono al cosiddetto realismo magico. L’ispirazione qui può essere uno spunto dato da avvenimenti storici sul quale inserisco elementi, diciamo, di extrarealtà.

Quanta parte del tempo di un illustratore viene impiegata a cercare documentazione?
Abbastanza. Prima di cominciare una storia si spendono varie giornate a cercare documentazione che non sempre si ha in casa, per cui è necessario andare nelle librerie, nelle edicole. A volte io mi servo anche del videoregistratore e del fermo immagine. E poi è importante una buona memoria fotografica, anche se oggi c’è internet che aiuta molto – ma io non ho il computer! Una cosa che io ho iniziato a fare tardi e che invece consiglierei di fare sin dall’inizio è collezionare metodicamente un archivio di immagini: nel nostro lavoro è fondamentale perché un giorno ti può capitare di dover disegnare un mobile Liberty, un altro un carro armato della Seconda Guerra Mondiale, un altro ancora un paio di forbici dell’Ottocento… Da tutto ciò che vede durante una giornata il disegnatore deve ricavare elementi per il suo lavoro.

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